Il più famoso sito di “crowdfunding” esempio di come la tecnologia possa essere strumento di impresa sociale

Si chiama «Kick-starter», e in gergo tecnico potrebbe essere tradotto come la «messa in moto» o addirittura il «calcio di inizio». E’ una piattaforma Internet che permette di raccogliere fondi per finanziare un’idea, un progetto o un sogno. Una specie di mecenate online che si poggia sul principio del micro-credito, un canale di finanziamento alternativo, che ha l’obiettivo di portate a compimento imprese di diverso genere, come la produzione di un film, la realizzazione di un libro o l’incisione di un disco. Attenzione però, non è una forma di investimento con cui chi versa una somma di denaro spera di ricavarne interessi di carattere pecuniario. In questo caso, infatti, il «reward», ovvero la ricompensa non è economica, ma può essere lo stesso frutto del progetto, o da esso completamente slegato. Se ad esempio un aspirante musicista vuole produrre un album e non riesce a reperire fondi dai canali tradizionali, pubblica il suo progetto su Kickstarter, presentandolo al pubblico a cui chiede di sostenerlo. Chi versa una somma viene ricompensato con una copia dell’album che, probabilmente, sarà venduta sul mercato a un prezzo superiore rispetto all’offerta fatta, così anche il micro- finanziatore ne otterrà vantaggio. Oppure la ricompensa per chi ha contribuito è di natura completamente diversa come, ad esempio, una maglietta autografata dall’aspirante musicista. Kickstarter è un’azienda newyorkese nata nel 2009 grazie a tre giovani e, a inizio ottobre, aveva lanciato 73.620 progetti con un tasso di riuscita – nella raccolta dei fondi prefissati – del 43,85 per cento. Per un totale di 381 milioni di dollari: il sito incassa infatti il 5% dei fondi raccolti con i quali finanzia le sue attività.

I progetti sono invece suddivisi in 13 categorie e 36 sottocategorie, per lo più di ispirazione artistica. «La definirei una piattaforma di “publishing”, ossia un modo per agevolare l’incontro tra domanda e offerta, dove nel primo caso si hanno soggetto privati che vogliono portare a compimento dei progetti, e dall’altra persone che credono nell’idea e sono disposte a finanziarla», spiega Nicola Gallotti, top-manager di esperienza internazionale. Ci spiega che si tratta di una forma di finanziamento non «equity», ovvero che con essa non si acquisisce una quota del progetto o dell’impresa che si va a finanziare, in sostanza non si è una sorta di azionisti, altrimenti si dovrebbe sottostare a una serie di norme e procedure che regolano questo genere di attività. «Il principio è quello del “crowdfunding”», dice, ovvero la raccolta fondi attraverso canali informali, una rete di conoscenze, parenti, amici e il network che si crea con la rete, come accade nella raccolta fondi per beneficenza in televisione. Da questo principio Gallotti vuole partire per esportare, o meglio applicare, il «crowdfunding» in Italia.

«L’idea è di dare vita a una piattaforma che consenta il finanziamento di progetti elaborati da nostri connazionali e che abbiano una dimensione più ampia», prosegue il top-manager, ovvero che vadano oltre quella dimensione più squisitamente artistica che hanno le imprese di Kickstarter. Una visione ambiziosa ma di assoluta attualità dal momento che con la perdurante crisi finanziaria e le difficoltà di accesso al credito, questo potrebbe risultare lo strumento giusto per fare micro-impresa. «Con l’obiettivo di esportare l’italianità», dal momento che a fronte di una presunta diffidenza interna e il rischio di lacune normative nazionali, «potrebbero essere persone da ogni parte del Pianeta a finanziare l’attività, che grazie alla piattaforme acquisirebbe popolarità in tutto il mondo». In sostanza un esempio di come la tecnologia può essere strumento di impresa sociale, abbattendo le distanze tra strutture, istituzioni e uomini.

Leggi l’articolo su: La Stampa