Orgogliosa dei codici d’onore che si è data da secoli, sicura del loro rispetto da parte di studenti della cui lealtà non ha mai dubitato, l’università di Harvard – la più prestigiosa d’America, almeno per le discipline umanistiche – sprofonda in un colossale scandalo di esami copiati come una qualunque scuola «plebea» della periferia americana. È con aria incredula che il presidente del celebre ateneo di Boston, Drew Faust, ammette il «fattaccio»: un «copia e incolla» di massa grazie al quale 125 studenti, la metà di quelli che frequentano il corso di «government», ha consegnato testi d’esame praticamente identici. Esami che, nel caso specifico, vengono svolti a casa e non in aula, tanta è la fiducia negli studenti ai quali sono stati inculcati i principi di lealtà nei confronti degli insegnanti e dei loro stessi compagni: copiare, falsare i risultati di un esame, oltre a essere da sempre una violazione infamante, è anche un torto fatto ai propri compagni di corso che in un simile contesto non possono emergere come meriterebbero. Per questo per secoli nessuno (o quasi) ha sgarrato.
Così adesso l’esterrefatto Faust tuona: «Se verranno provati, questi comportamenti vanno condannati come assolutamente inaccettabili: un tradimento della fiducia sulla quale si basa il prestigio intellettuale di Harvard». Quindi ci saranno sanzioni che possono andare dalla sospensione degli studenti per un anno a forme più blande come l’ammonizione.
Tutti gli studenti sorpresi a copiare (ragazzi ai quali è stato garantito l’anonimato) dovranno comparire davanti all’Harvard Administrative Board, una sorta di tribunale presieduto dal preside della scuola «undergraduate», Jay Harris. Un vero «segugio» che fin qui non si era accorto di nulla. È stato un giovane assistente che, nel correggere i compiti, ha dato l’allarme, rendendo inevitabile l’indagine.
E qui la cosa che più sorprende è la sorpresa dei docenti, visto che da quasi dieci anni ormai, il «copia e incolla» si va diffondendo ovunque attraverso Internet: cambia profondamente il comportamento degli studenti, stravolge il loro senso etico.
Del resto casi di plagio spuntano ovunque anche nelle professioni, dalla letteratura all’ingegneria. Senza risparmiare il giornalismo, dal caso del «copione» Jayson Blair, cacciato nel 2003 dal New York Times , fino a quello che ha coinvolto pochi giorni fa il columnist Fareed Zakaria. Il punto è che Internet e i suoi strumenti digitali non solo hanno facilitato il plagio sul piano tecnico, ma hanno piano piano reso il «copia e incolla» una pratica accettata dai più, soprattutto dai più giovani.
Una pratica che ha anche acquisito una sua certa dignità intellettuale quando, nel 2004, lo studioso Lawrence Lessig ha pubblicato «Remix»: un saggio che dichiara superata la difesa a oltranza della proprietà intellettuale e vede nel «copia e incolla» un utile strumento culturale per accelerare la circolazione delle idee. Senza la pretesa di essere gli alfieri di una nuova cultura, da una decina d’anni migliaia di studenti copiano a man bassa, semplicemente perché il «copia e incolla» non è più percepito come un comportamento illegittimo visto che «così fan tutti». È dal 2003, quando la Rutgers University effettuò la prima indagine scoprendo che il 40 per cento degli studenti ammetteva senza alcun senso di colpa di aver commesso qualche plagio, che l’allarme è scattato. Ovunque ma non nelle università «aristocratiche» della Ivy League, che, forse, si sentivano «al di sopra di ogni sospetto». Evidentemente non lo sono.

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